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Il presepe di F.Magli: una finestra sul microcosmo

Frugalità e creatività sorprendono il visitatore che accede all’antica cappella di San Francesco da Paola nel pittoresco borgo di Aiello Calabro in provincia di Cosenza, per gustare l’opera d’arte del Maestro Francesco Magli.

Camminando lungo la navata che solca il cuore dell’edificio sacro si è sorpresi da una nuova dimensione che rapisce i sensi e conduce ad un tempo in cui la creta supportava le orme del passaggio dell’uomo nell’intricato labirinto dei misteri della terra. Una sorta di idioma mistico accoglie colui che partecipa emotivamente alla visita del presepe e si snoda lungo le due pareti della cappella, divenendo un corpus unico con i microracconti citati dal presepe. È il linguaggio della creta. Trascendendo i confini del tempo, è il sangue che pulsa nelle trame della roccia, scalfendo ogni linguaggio minimale che celebra la gloria della modernità.

Il passato, la chiave di accesso all’essere, snoda lungo un percorso che definirei iniziatico i suoi simboli ancestrali reinterpretati in una nuova ottica dall’artista Magli. Il passato e l’inventiva, la tradizione e la creatività si coniugano così dando vita a una nuova età dell’uomo rivolta alla rinascita interiore.

Non c’è rumore all’interno delle spesse mura ocra, solo silenzio, linfa vitale dell’Universo, fraseggiato dal dolce brusio dell’acqua che costeggia le oasi dei paesaggi rappresentati e trasporta in sé il comune denominatore dell’esposizione di figure, che è la creta. Rossa e plasmabile, essa è il sangue della terra che rende viva e possibile ogni cosa. Penetra nei nudi squarci del nulla, colmando i vuoti dell’esistenza. Incita a una religione profonda che è la condivisione dell’Uno attraverso culture e paesaggi, nel poliedrico immaginario di aspetti umani. Ed è al tempo stesso l’invito per chi è andato oltre la soglia della propria consapevolezza interiore ad abbandonare i vecchi stereotipi di approccio alla fede e a calarsi in una nuova prospettiva spirituale. E così, totem di pietre che recano in sé le tracce del tempo si elevano al cielo, testimoni della cultura da cui provengono, quella della creta appunto, nella spasmodica ricerca di una simbiosi con ciò che è eterno e inviolabile. Spicca una tazzina viola sulla sommità di una di queste sculture. Un invito forse, rivolto all’uomo di oggi a mettere da parte la sua corsa affannosa per gli impegni che lo attendono ogni giorno e a soffermarsi invece sul proprio centro, l’ego interiore da ricercarsi nell’incontro con gli altri.

Figure che spiccano da un alfabeto arcano si protendono verso l’uomo moderno, riecheggiando nel proprio silenzio il richiamo pagano e mai profano di recuperare il linguaggio sacro dei simboli. Una radice contorta che si avvolge su se stessa, conduce istintivamente, su di un piano visivo, a recuperare l’immagine del serpente che con occhi acuti osserva il visitatore, quale sovrano della terra e Dio del deserto. Più in là un ceppo di legno adornato di rami diviene una mano che si schiude al cielo, a rappresentare l’atto estremo della terra del suo continuo donarsi, e risuona della domanda provocatoria dell’artista: “Può una seria e frugale ricerca estetica condurre al sacro?”. A voi visitatori la risposta.

Ippolita Sicoli
06/01/2007
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